Vetrina Festival: Roberto Sironi, “Gente del Giambellino”

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C’è sempre troppa nebbia quando c’è nebbia dappertutto, ma è nella nebbia che si intravedono le cose come sono, basta avere occhio, il tempo per guardare e il senso della direzione! In questa miopia climatica tutto diventa più intimo, più familiare, più confidenziale.
In questa luce fioca la luce si esalta in un tourbillon di sensazioni. In una luce così devi socchiudere gli occhi e cercare di vedere quello che succede veramente.
Non è così che si illuminano le idee?
Solo e sempre nebbia!
In quella sospensione nell’aria di minutissime gocce che pizzicano la faccia e confondono gli sguardi, si condensano storie incredibili mentre i vapori di tutta una vita nascondono segreti e antichi arcani, celando misteri ed enigmi che non avranno mai risposte! Intimità e confidenze, imbrogli e malintesi passeggiano abbracciati come amanti in cerca della strada più romantica, com’è romantica la notte quando è avvolta da una bruma superstiziosa e indecifrabile.
La notte!
Come quella notte che a salvarmi fu la mamma del Maurino!
Lei era lì, sul balcone, in quell’estate solitaria, io appoggiato a un palo della luce con la testa mentre i miei piedi stavano a un cinquantina di centimetri da quel palo e due poliziotti urlavano nelle mie orecchie tutta la loro rabbia; volevano sapere per quale motivo nella mia automobile vi fossero manifesti che inneggiavano alla latitanza!
Alla latitanza?
Di quale latitanza parlavano? Certo in quei tempi i latitanti…
Si, è vero, non sono mai stato un socializzatore, nel mio DNA molto probabilmente non compaiono segni tendenti alla convivenza sociale, sono piuttosto un solitario, sono più per l’intimità che per il gruppo, ma da qui a dire che ero un latitante, ce ne passa!
Mentre uno dei due poliziotti, tra l’altro in borghese, sicuramente
Digos, perquisiva l’automobile, l’altro mi puntava la canna della sua pistola alla testa e ricordo che nei suoi occhi vidi una tensione quasi artificiale, come se i suoi occhi fossero finti, fatti di un materiale

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comparabile all’alluminio o all’argento. Forse era l’eccitazione, il nervosismo, ma quei due occhi di un grigio chiaro brillavano come biglie di vetro in quella notte fonda e profonda come una ferita!
Trovati i manifesti volevano arrestarmi!
Ma quei manifesti non inneggiavano alla latitanza, alla banda armata! Quei manifesti erano solo le locandine di uno spettacolo teatral-cabarettistico che avevo scritto e che a quei tempi portavo in giro con un amico attore. Nel poster io e lui eravamo in bella posa, certo con un’aria sfrontata e di sfida, d’altronde facevamo satira, e sotto c’era scritto: “Lati…tanti” e non latitanti!
Quei tre puntini di sospensione facevano la differenza, almeno per me.
Tentai di spiegarmi con i due poliziotti ma non vi riuscii. Loro erano convinti di avere trovato un brigatista, ne erano certi! Tentai ancora di spiegare la situazione e ancora una volta andai a sbattere contro la loro certezza!
Sola la mamma del Maurino ci riuscì!
Perché cominciò a gridare, inveendo contro di loro, minacciandoli persino, gesticolando e urlando anche delle parolacce in un dialetto milanese franco e deciso! Era una scena tragicomica da vedere: loro che farfugliavano nei miei confronti minacce e duri avvertimenti e lei che li teneva in pugno con la forza di una madre, come un’aquila, aggrappata al corrimano del balcone in via Remo La Valle!
Io sapevo che loro sapevano che io non sapevo, — o no? — ma loro continuavano e la mamma del Maurino anche!
Guardai di sfuggita il mio balcone per vedere se c’erano le luci
accese. Avrei voluto che lo fossero, ma poi a pensarci bene era meglio così. Meno ansie e preoccupazioni. Meno angosce e inquietudini! I tempi erano già duri, non serviva renderli dolorosi, severi e inclementi. Io stavo sempre lì, immobile, in piedi, in una posizione tanto ridicola quanto faticosa con le mani ancorate alla mia testa che nel frattempo sembrava sostenere tutto il peso di quel palo della luce.
Finalmente, ma ce ne volle di tempo, pensarono che probabilmente
era tutto un errore.
Cominciarono a guardarsi intorno.
La mamma del Maurino non era più sola.
Un pubblico inconsueto, schierato sui balconi come loggionisti incazzati e decisi a non mollare, si era affacciato davanti a questo insolito e notturno spettacolo.
Ancora una volta la gente del Giambellino non dimenticava i suoi figli!
E poi cominciarono le voci e le voci si fecero coro e il coro cominciò

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a cantargliele di tutti i colori:
“Basta! Andate a casa! Andate ad arrestare quelli che mettono le bombe! Fascisti!!” e così via.
Qualcuno scese addirittura in strada a protestare!
Il Brusca, il papà del Maurino, uno dei tanti operai del quartiere, era anche un lottatore di lotta greco-romana, alzò persino la voce e chiesero i documenti anche a lui.
La scena si stava trasformando in una sceneggiata mentre si sentivano voci gracchiare, provenienti dalla radio della loro automobile, una Fiat blu che sembrava non essere in buone condizioni.
Si decisero a lasciarmi andare!
Salirono sulla loro automobile, cercarono per un’ultima volta il mio sguardo come per dire: “… Stai attento perché non finisce qui!” Poi si allontanarono, o almeno cercarono di farlo, perché mi misi davanti alla loro auto ed ebbi il coraggio di dire che non avrei toccato niente e che avrei lasciato tutto com’era.
La mia auto, allora avevo una Chrysler, era lì come abbandonata, con le due portiere anteriori aperte, i manifesti sparsi sulla strada e un sacco di altre cose che i due avevano buttato sui sedili: cartine stradali, un apribottiglie, stracci, matite e chissà cosa ancora.
Insomma: tutto quel casino non lo avrei aggiustato e se non avessi trovato la mia automobile al suo posto e in ordine il mattino dopo avrei sporto denuncia contro di loro. Chiesi i loro tesserini di identificazione!
Scesero dall’automobile probabilmente più incazzati che mai, soprattutto quello dagli occhi argentati! Il Brusca stava a qualche metro da me, in silenzio, in un silenzio che diceva tutto.
Uno dei due, — quello che aveva frugato nella mia auto, — non disse una parola, lanciò uno sguardo all’altro, uno sguardo di insopportabile accettazione, poi raccolse qualche manifesto, lo buttò all’interno della mia auto e richiuse le porte!
Poteva bastare!
Quello che contava era il principio e il principio era stato salvato, d’altronde quel fermo di polizia si era dimostrato inutile e violento.
Mi lasciarono lì, nella strada, con la minaccia che prima o poi ci saremmo rincontrati. Quella figura di merda che avevano fatto in quella via buia, in quella notte fonda, doveva essere lavata con la vendetta!
Non avevano trovato il terrorista, ma un artista, e quello lì, meritava
una lezione, magari anche doppia!

 

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